Incontro con il Maggiore Grosso. L’articolo su Elle di marzo in edicola
Il Maggiore Ilaria Grosso, medico volontario dell’Esercito Italiano, 52 anni che sembrano 42, lo dico subito, è una donna speciale. Certo, al primo impatto ho pensato che si trattasse di un tipo un po’ urticante, da prendere con le molle, mi è bastato tuttavia poco per capire che dietro un modo di fare diretto e a tratti brusco, si celava in realtà una donna di grande spessore umano e professionale.
Sedute in un caffè durante un gelido pomeriggio d’inverno, abbassate le difese e abbandonati i reciproci ruoli lei di soldato io di cronista, mi sono fatta raccontare la sua storia. E ho annotato sul taccuino d’ordinanza: «Sguardo fiero, determinato e appassionato; eloquio autorevole e a volte categorico (angoli un po’ da smussare); autocontrollo ed emozioni celate; aspetto elegante e sobrio. Bella donna. Femminile. Tosta». Mi sa che – ho pensato fra me – superate le formalità, per quanto mi riguarda, potremmo diventare buone amiche.
«Sono nata a Genova in una famiglia borghese – racconta – . Da bambina ha praticato sci agonistico a Sauze d’Oulx, sei mesi all’anno per dieci anni, e ho studiato contestualmente fino a conseguire la maturità classica. Dopo la laurea in Medicina e Chirurgia e la specializzazione, ho vinto una borsa di studio in chirurgia oncologica cervico facciale e sono approdata all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano».
Ilaria si è quindi occupata dei tumori maligni della pelle, di senologia e di chirurgia grazie a dei maestri di eccellenza che l’hanno guidata nella professione: «In quegli anni ho imparato molto e incontrato anche difficoltà che oggi interpreto come prove finalizzate ad acquisire una maggiore forza come donna e come medico» -, osserva.
Ma la realtà dell’ospedale è maledettamente dura, la malattia, il dolore e soprattutto la morte la colpiscono nel profondo. «Cercavo motivazioni forti e anche nuove idealità. Un nuovo modo di affrontare la malattia, anche da un punto di vista religioso».
Ha quindi deciso – pur continuando a lavorare in un ambiente di eccellenza – di studiare teologia. Perché oggi, dice, parte della la medicina è sempre più cinica, frettolosa e aderente alle richieste della società del benessere, con il risultato di trascurare troppo spesso l’aspetto umano. «Ho studiato per cinque anni Scienze religiose. L’ho fatto non solo per approfondire la mia fede cristiana, ma anche per un sincero interesse verso le tre religioni monoteistiche».
Ma è davanti alla bara di suo padre che matura la decisione che cambierà davvero la sua vita: «Quando mio padre Ernesto è mancato, un uomo che ha saputo incarnare e difendere i valori della patria a caro prezzo, ho capito quello che avrei fatto. Era il 1992, lo ricordo come fosse oggi: rivedo il tricolore sulla sua bara e la mia promessa interiore che un giorno sarei entrata nell’Esercito Italiano».
Presto fatto. L’occasione arriva nel 2005, quando un ufficiale medico in servizio permanente le parla della Riserva selezionata dell’Esercito Italiano.
«Dopo l’invio della documentazione richiesta e aver passato le selezioni e il corso previsti presso la Scuola di Applicazione di Torino, ho giurato nel giugno del 2008 e tre mesi dopo sono stata richiamata dallo Stato Maggiore dell’Esercito per la missione UNIFIL in Libano, l’Operazione Leonte 5 con il Reggimento Lagunari (un corpo tipo i marines, ndr). Cosa ho provato? Entusiasmo e consapevolezza che dovevo dare il meglio di me, ma anche imparare moltissimo».
Ilaria trascorre dunque cinque settimane a Mestre nella caserma dei Lagunari per il periodo “di amalgama”, un tempo previsto prima di ogni missione per conoscere il reggimento, ricevere un indottrinamento specifico sulla missione ed effettuare le attività di addestramento richieste. Sembra facile ma non lo è. Perché i requisiti necessari sono molti: un’esperienza professionale utile per l’impiego a cui si è destinati, idoneità fisica, requisiti morali, empatia, meticolosità, capacità di percepire il pericolo, applicare le procedure, una buona visione del particolare e dell’insieme.
In Medio Oriente presta il suo servizio al di fuori di ogni organizzazione. È infatti ospite di diverse comunità, in particolare quella armena della Diaspora che le è particolarmente cara.
«In missione eravamo cinque donne del reggimento Lagunari, tre o quattro aggregate e circa settecento uomini. Io ero ufficiale medico della base di Marakah. In quel momento le prime sensazioni erano la percezione della responsabilità e l’interesse per quel tipo di vita così particolare. Man mano mi sono appassionata a conoscere le attività diverse e i mezzi con cui ci si muove (Lince, Puma). Ho compreso che il mio impegno sanitario doveva essere aderente alle esigenze operative: l’organizzazione dell’infermeria, l’approntamento dell’ambulanza, la modalità relazionale con i militari dovevano avere l’unico obbiettivo di una mia azione integrata ed efficace. Ho capito che non potevo vivere in un “isolamento sanitario” ma che dovevo partecipare direttamente alla vita della base».
Partecipare alla vita della base presuppone un apprendimento continuo, perché ogni cosa è nuova, diversa, va quindi appresa e contestualizzata. Non solo: è fondamentale essere sempre all’erta, disponibili e pronti alle emergenze: «Ricordo che una notte il comandante mi chiamò perché era morta la madre di un soldato. Era un comandante di plotone di circa 25 anni. Il comandante gli aveva parlato ma adesso toccava a me dargli la notizia. Per fortuna conoscevo personalmente questo ragazzo perché lo avevo curato. Gli parlai, e lui, con una tristezza tanto grande quanto composta, mi disse che la madre viveva sola e lui era l’unico figlio. Mi piace ricordarlo così, che lascia la base per andare all’aeroporto di Beirut e recarsi al funerale. Ma non prima di avere raccomandato al suo plotone di attenderlo e di continuare come se lui fosse presente. Ecco, questo episodio mi ha molto colpita. L’umanità accompagnata dal senso del dovere sono un binomio difficilissimo da realizzare, ma quando ciò avviene è di grande esempio».
Nel corso degli anni le missioni all’estero consistevano, tra l’altro, nell’assistenza di donne, bambini e anziani da cui Ilaria era – ed è tuttora – molto amata per la sua dedizione nel gestire urgenze e prevenzione: «Sono stata impiegata per due missioni in Libano e per tre missioni consecutive in Afghanistan e, ogni volta – data la posizione della base -, senza il supporto di un ospedale militare adiacente. L’organizzazione mi garantiva di perfezionare entro un’ora le cure ulteriori che il mio team ed io avevamo iniziato in estrema emergenza. Tutto ciò con l’aiuto dei soccorritori militari – dei soldati semplici -, approntati nel soccorso sanitario».
Il contatto con la popolazione, spiega il Maggiore Grosso, è uno dei fattori che sta più a cuore al contingente: «Fino al 2013 avevamo più contatto con la gente del posto. In seguito, una maggiore consapevolezza del governo afghano ci ha consentito di demandare alle autorità locali una parte del supporto alla popolazione. A noi è rimasta la responsabilità delle emergenze».
A Ilaria è anche capitato di intervenire in situazione di guerra estrema. Il 24 marzo del 2012, una base italiana in Gulistan viene attaccata. Muore il sergente Michele Silvestri, altri militari restano feriti. «Ho soccorso dei nostri militari durante l’attacco con bombe di mortaio contro FOB ICE (Forward Advanced Base) nel sudest dell’Afghanistan. Ero l’ufficiale medico del 1° Reggimento Bersaglieri. Quest’esperienza ha messo alla prova tutti noi che eravamo in quella base e ha attivato un meccanismo sinergico di azione professionale e di reciproco aiuto. Il soccorso dei feriti effettuato in sicurezza nei bunker e l’arrivo dei Black Hawke (elicotteri, ndr) hanno ottenuto il risultato di salvare la vita a due feriti molto gravi e a cinque feriti più lievi».
In quel frangente Ilaria era l’ufficiale medico della base, supportata da un valido maresciallo di Sanità (un infermiere specializzato) e dai soccorritori militari. Anche se di fatto la responsabilità sanitaria era sua.
Non ha mai avuto paura? «La paura esiste ma è un attimo. Poi prevale la necessità di affrontare la realtà e subentra la volontà di opporsi a quello che sta succedendo. Nel soccorso ho percepito la presenza di un Comandante e di una comunità che si muove in modo coordinato e gerarchico e soprattutto unita rispetto agli obbiettivi. E questa sinergia ci ha sostenuti per tutti i mesi successivi».
Agli amici che le chiedono chi glielo ha fatto fare di affrontare una vita così pericolosa risponde: «Quest’esperienza rappresenta per me una grande opportunità. Mi ha fatto conoscere ed apprezzare la vita militare e a ripensare a tutte le possibilità che abbiamo in Occidente».
Ilaria, ancora una domanda: ma in mezzo a tutti questi uomini – considerando che nell’Esercito Italiano le donne sono ancora in netta minoranza – non ha mai trovato il Principe Azzurro? «Il clima della missione, la disciplina, la tipologia delle relazioni improntate a una cordialità essenziale, non realizzano le condizioni per instaurare legami sentimentali ». Quindi, chiedo, è una single convinta? «No, sono una donna che sa bene quello che vuole e non ama i compromessi. Sicuramente credo che possa esistere un Principe Azzurro. Non so se mi sarà dato di incontrarlo».
Prossima missione? «Attendo di essere richiamata. Non sono io a decidere ma non nascondo che partirò con grande entusiasmo».
Maggiore Ilaria Grosso, medico volontario dell’Esercito Italiano, 52 anni. Indubbiamente tosta!
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